Il “Natale in casa Cupiello” di Eduardo nella visione di Vincenzo Salemme, alla prima serata napoletana al Teatro Diana, colpisce subito ed entusiasma il pubblico. (Recensione)
Con l’inizio vicino alla movenza stilistica della televisione grazie agli squarci esterni su casa Cupiello che come numero civico riporta quel 77 presto associabile al diavolo secondo la smorfia napoletana o all’anno dell’ultima edizione della commedia in Tv, il “Natale in casa Cupiello” di Eduardo nelle mani di Vincenzo Salemme alla prima napoletana al Teatro Diana, colpisce subito per due precisi aspetti.
Il primo, relativo al coraggio dell’interprete e regista Salemme intento a riproporre in maniera moderna ma rispettosa del passato una storia in grado di uscire dai confini della credibilità fino a giungere sui sentieri della visionarietà e del simbolismo. Il secondo, legato alle progressiste caratteristiche di una messinscena in grado di far coincidere le emozioni di un testo teatrale a dir poco sacro, con una rilettura prodiga di costruttiva fantasia.
Al debutto partenopeo, il Luca Cupiello di Vincenzo Salemme ha mostrato di possedere, a modo suo, tutti quei guizzi cari a Eduardo, specifici di un uomo che prova a lasciarsi alle spalle la tristezza della realtà. Strappando il personaggio dal suo manto di napoletanità, proprio com’era intenzione del grande De Filippo, l’attore e regista, superando agevolmente quel timore reverenziale procurato dalle opere di Eduardo, ha ridato nuova linfa vitale ai tratti di un essere diventato maschera.
E ciò, rinnovando le fondamenta di una commedia capace di vivere e rinascere oltre la dimensione del tempo. Ribadendo la grandezza di un autore come Eduardo, teso ad allargare il suo discorso in maniera universale, “Natale in casa Cupiello” in mano a Salemme ha evidenziato lo schema di un copione in perfetto equilibrio tra la farsa e il realismo.
Una famiglia, quella dei Cupiello, che come scrisse lo stesso Eduardo, «é la definizione scolpita del carattere di quelle povere creature napoletane ai cui occhi il nostro sole fa risplendere persino le crude miserie della loro triste vita di tutti i giorni». Ed è proprio meditando sul pensiero dell’autore che nella visione drammaturgica di Salemme, si è intravista una luce pronta ad illuminare le sfumature di una messinscena ricca di patetica umanità e dolente commozione.
Giudicata dopo la sua nascita del 1931 come una commedia vittima delle influenze crepuscolari dominanti in quel teatro napoletano post digiacomiano che fu di Bovio e di Murolo, nella versione di Salemme il lavoro è riuscito a dividersi tra il clima del dramma e la forza di un umorismo tragico.
Animata anche dall’intensa e rinnovata interpretazione di Antonella Cioli nei panni di Concetta Cupiello, la messinscena grazie alla generosa attrice ha ritrovato i tratti di un personaggio paradigmatico. Lo stesso che, nel fare da contraltare al marito Luca, ha evidenziato un’espressività più che in linea con i sentimenti di una donna carica di sofferenza e umano dolore. Con il resto della compagnia pronto a impersonare modernamente i noti tipi eduardiani, a porsi in evidenza, tra gli altri, sono stati l’eccellente Antonio Guerriero nei panni del figlio “Tommasino”, l’abile e struggente Franco Pinelli che nel ruolo di “Pasquale” ha persino ricordato, come unico anello legato al passato, quel Gino Maringola dell’edizione televisiva del 1977 e ancora, Fernanda Pinto nelle vesti di “Ninuccia”, Sergio D’Auria impegnato con “Vittorio Elia”, Vincenzo Borrino alle prese con “Nicola Percuoco”, Oscarino Di Maio con “Raffaele” e Geremia Longobardo nei panni del “dottore”.
Con queste premesse e con le luci di Cesare Accetta, le scene di Luigi Ferrigno, i costumi di Francesca Romana Scudiero e le musiche di Nicola Piovani, la storia di Luca Cupiello in mano a Salemme, mai esagerato e mai spinto dalla emulazione, passa dalla passione per il presepe ai drammi della famiglia, fino a giungere a quella atmosfera natalizia fatta di colla di pesce e Re Magi.
Un signor Cupiello, quello delineato da Salemme, cristallino e puro, interiormente pervaso dalla tipica innocenza di un uomo in cerca di serenità. Un uomo di “buona volontà” che, in punto di morte, quando il penitente e ravveduto figlio Tommasino finalmente riconosce che il presepe gli piace, si eleva alla gloria dei cieli, diventando, in un quadro familiare simile allo scenario della Natività, il protagonista assoluto, proprio come il Gesù Bambino, di quella sacra rappresentazione venerata in vita.