Mine, la pellicola candidata come miglior film esordiente e non solo ai David di Donatello e ai Nastri d’argento 2017, è un esordio folgorante, vuoi per la qualità dei due registi ma soprattutto per il genere cinematografico cui si iscrive, che appartiene per di più a cinematografie anglosassoni piuttosto che alla nostra.
Film di guerra di questo tipo non ne appaiono nel nostro cinema, o per lo meno storie scritte, girate e dirette così. L’opera fa pensare alle sfide estreme cui erano sottoposti un DiCaprio in “Revenant” o un Ryan Reynolds in “Buried”, tra natura selvaggia e thrilling psicologico.
In Mine il deserto è l’equivalente dei ghiacci e delle nevi del film di Inarritu con Leo DiCaprio, ma forse anche un po’ dell’astronave in “Solaris” di Tarkovsky, in cui visioni, allucinazioni e proiezioni inconsce si materializzano nel corso del calvario del protagonista.
Mike, il giovane marine messo qui alla prova e interpretato dall’efficace e intenso Armie Hammer, si ritrova in NordAfrica per una missione militare dall’esito negativo, cui farà seguito una fuga col compagno e amico di sempre in una tempesta di sabbia.
La tensione cresce subito e il pericolo mortale si manifesta con l’esplosione di una mina che travolge e uccide l’amico di Mike, lasciando il soldato solo e in preda al caldo asfissiante, alla mancanza di cibo e acqua e persino alle iene.
In splendidi e ben fatti montaggi alternati, vediamo il giovanotto ripensare al suo passato, dal padre violento della sua infanzia alla sua compagna in America, mentre avversità e disperazione crescente sfiancano il suo corpo, sempre più debole col passare del tempo.
Il film più recente sulla tematica delle mine anti uomo che viene in mente è il croato “No Man’s Land” (Terra di Nessuno), film sulla tragedia jugoslava che vinse l’oscar come miglior film straniero a suo tempo, ma al di là dell’argomento comune Mine è un’opera completamente diversa: qui forse non importano motivazioni politiche, posizioni ideologiche come se ne potevano rintracciare nei due film della Bigelow sull’Iraq e l’Afghanistan, “Zero Dark Thirty” e “The Hurt Locker”.
Conta prima di tutto lo scavo psicologico, l’introspezione del personaggio e il suo inconscio che lo tormenta e che prende corpo tra dune e miraggi berberi. Un film non facile e sicuramente impegnativo, che si avvale di ottimi effetti speciali funzionali al racconto – e come potrebbe altrimenti? – e che lancia i due “Fabio” della regia a quattro mani verso aspettative altissime per i futuri lavori.
Articolo pubblicato il: 15 Gennaio 2018 17:00