L’aggressione da parte di una baby gang subita da un 16enne alla stazione della Metropolitana del Policlinico è solo l’ultimo degli episodi di violenza tra minori che si sono verificati ultimamente nel napoletano: Arturo, Gaetano, i due amici picchiati con una catena a Pomigliano d’Arco sono adolescenti con l’unica colpa di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, vittime dell’impulso violento e immotivato di loro coetanei. Un problema che si manifesta in egual misura in tutta Italia. Le chiamano baby gang, ma forse sarebbe più corretto parlare di branco di adolescenti violenti in azione. Perché se i connotati della baby gang fanno riferimento alla microcriminalità organizzata, il branco invece è un’aggregazione di ragazzi affratellati che mette in atto comportamenti devianti più impulsivi, meno strutturati e che spesso agisce senza motivazione apparente. Infatti è proprio il branco (baby gang) ad abbassare la soglia di percezione dell’illecito e a deumanizzare la vittima, per giustificare le proprie imprese e stabilire con essa rapporti interpersonali prevaricatori e vessatori. Un modo, per questi giovani “a metà”, di avere la libertà dell’adulto e l’irresponsabilità del bambino, per attuare comportamenti appaganti e rafforzativi dell’autostima, ben lontano da quelli proposti da scuola e società.
Ma quali le cause?
Contesti familiari problematici sono certamente la prima causa precipitante di un disagio generazionale sempre più diffuso tra i ragazzi. Conflitti, separazioni, divorzi, perdite, latitanza del controllo genitoriale, abusi di vario tipo. Provenienza da famiglie multiproblematiche, a volte eccessivamente accondiscendenti o iperprotettive e non necessariamente avviluppate in una condizione di disagio economico.
A questo si aggiunge il profilo di una generazione digitale, iper connessa, social, multitasking che passa giornate in rete, fino ad arrivare allo scollamento definitivo con la realtà. Pensiamo ai profili facebook fasulli, ai giochi che simulano vite parallele, ai nick, agli avatar. Ci si conosce in rete, ci si innamora, flirta, spoglia, ci si prende e ci si lascia. Tutto on line, immersi in surrogati di affettività che generano isolamento e marginalizzazione.
Nasce allora negli adolescenti il comportamento violento, spesso per contagio, per emulazione, con la convinzione di rimanere impuniti: sotto i 14 anni non sono imputabili, sopra i 14 anni si devono valutare tutta una serie di fattori, tra cui la capacità di intendere e di volere.
Uno sbaraglio generale che si ripercuote su di loro, che crescono senza paura, senza timore di una punizione, di una sanzione, alimentandosi sul web di serie in streaming che osannano i comportamenti criminali, i cui protagonisti diventano i loro idoli.
Il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti afferma: “I ragazzi vanno sottratti alla camorra: senza la scuola, senza una cinematografia e una letteratura che propongano modelli migliori dei personaggi di Gomorra, senza una prospettiva di lavoro e senza lo sport che educa alla lealtà e al rispetto delle regole, saranno lasciati sempre soli”.
Ovviamente, non è una serie, un videogioco, un video che creano un criminale, ma in una psiche già deviata, labile e predisposta, può essere un fattore condizionante e di rinforzo. Questo porta ad avere sempre più dei profili di rischio, non per forza legati a quartieri o a condizioni difficili. Spesso sono ragazzi benestanti, che provengono da famiglie con un livello socio-economico elevato, che comunque non vivono in periferia in mezzo alla criminalità, ma che vanno a scuola e potrebbero avere un futuro diverso da quello che generano con i loro comportamenti. Ma, se questo potere persuasivo esiste o se esiste almeno nel caso di soggetti già predisposti, tenerne conto non è un obbligo morale, ma una scelta possibile.
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