Anche quando chi ci circonda inizia ad apostrofarci col nome dell’altro, confondendoci nella nostra controparte ideale, nell’anima più complementare che potremmo trovare, significa che Eros, il dio dell’amore, “ha sconvolto e rapito il cuore come un vento che si abbatte sulle querce di montagna”, direbbe la poetessa Saffo.
L’antichità classica e la bellezza in questa storia d’amore e lacrime sono il correlativo oggettivo ideale dei sentimenti, così come la frutta estiva gioca un ruolo non indifferente, con una carica erotica e sensuale che non si può certo esaurire nella scena della pesca (cliccata e diffusa in rete su YouTube e da qualcuno giudicata di cattivo gusto, sebbene funzionale alla diegesi).
L’Italia torna ad essere grande, e ritorna la sua grande bellezza agli Oscar: se non indoviniamo più il film giusto da mandare in cinquina tra gli stranieri, è pur vero che un piccolo film indipendente con attori semisconosciuti, diretti da un regista siciliano, si è fatto strada tra i grandi di Hollywood, arrivando a concorrere per la statuetta con colossi come Dunkirk, Darkest Hour e The Post di Spielberg. Il giovanissimo Timothée Chamalet se la vedrà addirittura con pezzi da novanta come Daniel Day-Lewis, Denzel Washington e Gary Oldman nella rosa dei migliori attori protagonisti. Non vincerà ma il risultato è già notevole per un ragazzo di 22 anni franco-americano che ha imparato anche un po’ di italiano in quel di Crema, dove è ambientato il film.
Siamo negli anni ’80, e ce ne accorgiamo dalla moda, dalle canzoni di quel decennio, dalle auto e dai discorsi politici su Bettino Craxi. Oliver (Armie Hammer, mai così bravo, sottile come una filigrana e tenero come un cucciolo) arriva una mattina d’estate a casa del prof. Perlman (l’ottimo Michael Stuhlbarg, che fa un discorso da premio nel terzo atto del film), ebreo americano trasferitosi nel Nord Italia per lavoro e studio – si suppone.
Si fermerà per sei settimane e non saprà resistere alle tentazioni della penisola: tuffi nelle acque di sorgente, musica, serate in compagnia, buon cibo e passeggiate tra architetture romaniche e sentieri in val padana. E non resisterà al giovane Elio, (l’intenso Chalamet) figlio del Dott. Perlman, che si lascerà andare come una pesca colta dall’albero nel giardino di casa. Non subito , non cogliendo i segnali, respingendoli forse e trovando l’amico inizialmente antipatico.
Finale da fazzoletti, con una telefonata che se non è tragica come in Brokeback Mountain – la gita a Bergamo sulle Alpi cita quasi il capolavoro di Ang Lee, sulle note della bellissima Mystery Of Love di Sufjan Stevens, in gara per la miglior canzone originale – spezza comunque le parole in gola e ci lascia turbati, come solo le storie più riuscite sanno fare su grande schermo.
Una delle migliori pellicole a tema lgbt degli ultimi anni senza dubbio, insieme al poco conosciuto Weekend uscito in sala da noi nel 2016, e il merito va, più che alla regia comunque sapiente, evocativa e onirica di Guadagnino, soprattutto a James Ivory, che ha adattato il romanzo omonimo. E dall’autore di Maurice era lecito aspettarsi grandi cose.
Articolo pubblicato il: 5 Febbraio 2018 9:00