E’ morto in Spagna, all’età di 70 anni, il romanziere cileno Luis Sepulveda: aveva contratto il Covid-19.
In Italia è stato uno scrittore amatissimo, dai tempi del suo primo libro uscito nel nostro Paese, “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”. Oggi Luis Sepulveda, narratore, drammaturgo e poeta cileno classe 1949, se ne è andato dopo un lungo ricovero per il contagio da nuovo Coronavirus. Una perdita per il mondo letterario mainstream, ma anche per chi si è riconosciuto dal punto di vista politico e non solo culturale, nella lotta anti totalitarista del Sudamerica e nei drammi e negli orrori, spesso al di là del tollerabile, che hanno contraddistinto le dittature e le guerriglie del Continente. Sepulveda aveva vissuto in prima persona la violenza brutale del regime instaurato da Pinochet, che lo aveva incarcerato e torturato come attivista comunista, già militante in movimenti di sinistra in Bolivia e Nicaragua.
La sua liberazione, dopo sette lunghissimi mesi, avvenne dopo fortissime pressioni di Amnesty International e, subito dopo il ritorno in libertà, Sepulveda ricominciò a fare teatro e a battersi contro il generale e la sua giunta militare, innescando inevitabilmente un secondo arresto che, grazie alla notorietà del personaggio, non lo portò nelle fosse comuni dei tanti anonimi desaparecidos, ma a una condanna all’ergastolo, poi commutata in otto anni d’esilio. Viene in mente, ripensandoci oggi, la vicenda simile ma diversissima di un altro grande scrittore cileno, Roberto Bolaño, anche lui incarcerato come militante di sinistra, ma liberato – così si racconta – pochi giorni dopo da due guardie carcerarie che erano stati suoi compagni di scuola. In qualche modo mentre Sepulveda non potè più pensarsi se non come lo scrittore vittima del brutale regime, Bolaño si portò addosso per tutta la vita una sorta di senso di colpa per non avere patito come tanti altri suoi compagni. Due destini diversissimi per tanti aspetti, sia letterari sia biografici, entrambi però uniti da una vocazione totale per la scrittura militante e da un destino di malattia che, li ha portati alla morte, cosa che la violenza politica non era riuscita a fare.
Luis Sepulveda, come scrittore, ha raccontato, per usare un suo celebre titolo, il mondo alla fine del mondo, attraverso un linguaggio evocativo, immaginifico, figlio della tradizione sudamericana più nota, ma rivisitata in modo originale, con una attenzione alla dimensione della favola che ne ha fatto un autore amatissimo. Dimensione che permetteva di celare sotto l’aspetto più semplicemente narrativo, i fantasmi della storia e delle persone che lo scrittore aveva incontrato. Così è significativo che il suo titolo più noto, complice anche la trasposizione cinematografica, resti, in fondo, “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, un romanzo tragico per molti versi, ma anche carico di speranza di rinascita e di una nuova solidarietà, anche ambientale, che forse, al netto della politica e dei suoi orrori, restano il portato più rilevante del Sepulveda scrittore, ancora oggi. Insieme ovviamente alla costruzione di quel luogo letterario, tragico e vivido che è stato il Cile del Novecento, Paese che la scrittura inserisce a pieno titolo in un’epopea continentale al contrario, che passa dal Messico di un Juan Rulfo e del suo “Pedro Pàramo” per arrivare all’Argentina sia dei Borges sia dei Rodolfo Walsh, passando ovviamente per Macondo e Garcia Marquez, ma anche per la Cuba di Lezama Lima e la Bahia di Jorge Amado. Di Bolaño, che come Sepulveda è poi morto in Spagna, abbiamo già detto.
Luis Sepulveda, ci dicono le statistiche, è stato il primo malato ufficiale di Covid-19 nella regione delle Asturie. La sua lotta con la malattia è stata lunga, ma questa volta non ha visto una scarcerazione e un ritorno alla vita. Il direttore del Salone del libro di Torino, Nicola Lagioia, ha ricordato la sua presenza al Lingotto insieme al giornalista, anche lui prematuramente scomparso Alessandro Leogrande, come “uno degli ultimi momenti di vera felicità del nostro lavoro”. E poi ha aggiunto: “Oggi piangiamo i morti”. Una circostanza, purtroppo, molto diffusa anche in Italia al tempo del contagio.