Lo spettacolo, che rilegge i primi tre libri di Paolo Villaggio (Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi e Fantozzi contro tutti), in scena al Teatro Bellini, ambisce a una drammaturgia complessa, con toni che oscillano tra il tragico e il grottesco.
Portare Ugo Fantozzi, emblema del cinema italiano grottesco, sul palcoscenico teatrale è un’impresa che richiede coraggio e visione. “Fantozzi. Una tragedia”, adattamento firmato da Davide Livermore e prodotto dal Teatro di Genova con Enfi Teatro, Nuovo Teatro Parioli e Geco Animation, prometteva di trasformare il ragioniere più famoso d’Italia in una maschera della Commedia dell’Arte, ma il risultato lascia più dubbi che entusiasmo.
Lo spettacolo, che rilegge i primi tre libri di Paolo Villaggio (Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi e Fantozzi contro tutti), in scena al Teatro Bellini, ambisce a una drammaturgia complessa, con toni che oscillano tra il tragico e il grottesco. Livermore, regista esperto di classici, sceglie una strada ambiziosa ma accidentata, firmando la drammaturgia con Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga e Gianni Fantoni, quest’ultimo anche interprete protagonista.
Fantoni, noto estimatore del personaggio, cerca di restituire al Ragionier Fantozzi una profondità esistenziale che lo avvicina ad Amleto, ma la trasformazione si rivela priva di autentica vitalità. Le scene iconiche tratte dai film come la partita di tennis, la sfida al biliardo e così via, si susseguono con un’aderenza quasi didascalica, senza quella scintilla che ha reso Fantozzi un simbolo di tragicomica alienazione.
La regia, con le scenografie di Lorenzo Russo Rainaldi, i costumi di Anna Verde e le luci di Aldo Mantovani, punta su atmosfere minimali e astratte, che evocano un’epoca ma soffocano l’energia originaria dei personaggi. Persino la mitica Bianchina diventa una donna romana, metafisica e lontana dal mondo reale. La coralità del cast non riesce a restituire il vigore necessario: Paolo Cresta (Calboni), Cristiano Dessì (Filini), Lorenzo Fontana (Silvani), Rossana Gay (Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare) e gli altri si muovono in scena come pedine di un gioco che non trova il ritmo giusto.
L’unica eccezione è Simonetta Guarino, che con il suo “dizionario fantozziano” aggiunge un tocco di brillantezza a un testo appesantito da digressioni storiche e messaggi morali espliciti, come le invettive contro il body shaming affidate a Pina. L’operazione fallisce nel suo intento principale: consegnare Fantozzi alla storia teatrale come maschera universale. Se nel cinema il ragioniere incarnava un equilibrio perfetto tra comicità e pena, sul palco il personaggio perde quella spontaneità che lo rendeva unico, trasformandosi in un simbolo troppo serioso e consapevole della propria miseria.
La lunga durata dello spettacolo, infine, (2 ore e 40 minuti) non aiuta, e il pubblico esce dal teatro stanco, forse desideroso di riscoprire il Fantozzi originale sullo schermo, dove il confine tra riso e malinconia si svela in tutta la sua forza. In conclusione, “Fantozzi.
Una tragedia” dimostra come sia difficile tradurre il linguaggio cinematografico in quello teatrale senza smarrire l’essenza di un personaggio simbolo del disagio umano che lo circonda. Un progetto ambizioso, ma non riuscito, che conferma quanto sia arduo trasformare un homo ridens in una maschera tragica senza perdere il contatto con il pubblico.