“Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia”. Questa senza dubbio è la battuta più suggestiva e indimenticabile di tutto il cinema di Francois Truffaut, contenuta nel suo piccolo libro “L’uomo che amava le donne”, la versione romanzata della sceneggiatura del suo film omonimo, concepito come un “romanzo nel film” scritto in prima persona, dallo stesso Truffaut.
Sono voluto partire da questo film del 1977, per affrontare la figura complessa e versatile di questa grande regista che, non solo ci ha lasciato indimenticabili lungometraggi, ma ha cambiato significativamente anche la storia del cinema mondiale.
Forse nessuno più di lui ha amato la settima arte così intensamente, trascorrendo le ore più belle della sua travagliata adolescenza, nei cinematografi, dove era solito rifugiarsi per seguire quella che sarebbe diventata la sua più grande passione.
I miei primi duecento film li ho visti in clandestinità, disertando la scuola o entrando in sala senza pagare – attraverso le uscite di sicurezza o le finestre dei gabinetti – oppure approfittando, di sera, dell’assenza dei miei genitori e con la necessità, quindi, di trovarmi a letto fingendo di dormire al loro rientro.
Francois Truffaut è probabilmente un caso unico nel cinema mondiale nell’affidare un personaggio, Antonine Doinel, sempre allo stesso attore, Jean-Pierre Léaud, di sui si ripercorrono alcuni momenti salienti della sua vita, dalla prima adolescenza (I 400 colpi del 1959), al primo amore (L’amore a vent’anni del 1962), al matrimonio e ad altre rocambolesche avventure (Baci rubati del 1968), alla vita coniugale (Non drammatizziamo … è solo questione di corna! del 1970) fino ad arrivare ad una presunta maturità (L’amore fugge del 1979).
Con il suo “alter ego” Truffaut compie in progressione un ciclo in tutta la sua completezza, evidenziando un atteggiamento autobiografico, che però, nel corso di questi film citati, diventa sempre più indipendente da lui.
Questo attore inoltre avrà una parte da protagonista in Effetto notte (1973), un film divertente nel quale lo scopo principale è stato quello di dare il massimo di informazioni su quello che succede durante le difficili riprese di un lungometraggio, e in Le due inglesi (1971), tratto dal romanzo di Henry. Pierre Roché, il cui soggetto sembra quasi da romanzo “rosa” ma la tragedia è già nell’aria e la storia è in relazione con il suo, forse, film più bello Jules e Jim (1962).
Non si può affrontare la complessa figura di Francois Truffaut senza menzionare questo capolavoro cinematografico, che traspone sullo schermo il secondo e ultimo romanzo di Henry-Pierre Roché; si racconta dell’amicizia pura e audace di tre bohémiens che cercano di reinvitare una coppia (in questo caso un trio) aperta, attraverso la protagonista femminile che “amministra” con disinvoltura il suo rapporto con gli uomini.
Sto parlando naturalmente della meravigliosa ed eterea Jeanne Moreau, una delle attrici più versatili e incisive del cinema francese, dotata di un fascino unico e sorprendente. La ritroveremo più tardi anche in
Mi piace ancora citare Adèle H., una storia d’amore, (1975) uno dei suoi film più belli, la cui protagonista interpretata da una brava e intensa Isabelle Adjani, è la figlia dell’uomo più celebre del mondo, di cui si parla sempre ma non lo si vede mai, e che solo a metà del film viene rivelata la preziosa identità di questa giovane donna, che nemmeno io voglio adesso rivelare, per non rovinare la sorpresa a coloro che non l’hanno ancora visto.
Truffaut è stato un grande regista che ha operato su più livelli, come critico era implacabile, come sceneggiatore geniale, come scrittore appassionato, ma soprattutto è stato un “rivoluzionario” grazie a quella lunga ed articolata elaborazione teorica meglio conosciuta come “Nouvelle Vague”.
Un turbolento gruppo di giovani cineasti, Godard, Chabrol, Rohmer e naturalmente Truffaut, fondano un nuovo linguaggio cinematografico, una “nuova onda” appunto, nel quale il regista diventa il vero artefice del suo lavoro, coniando questa nuova “idea di cinema” frutto del pensiero teorico e riflessivo di questo nuovo gruppo di intellettuali.
Ricordo ancora adesso un articolo piuttosto polemico, apparso nel 1954 sul numero 31 dei Cahiers du cinéma, intitolato “Una certa tendenza del cinema francese” dove Truffaut elaborava quella che lui stesso definiva “la politica degli autori” in contrapposizione a quella “tradizione di qualità” all’epoca molto diffusa.
L’impronta che la Nouvelle Vague ha lasciato nel cinema è stata così forte che ancora oggi, nei film di registi del calibro di Lynch e Tarantino, si può ancora percepire un certo tocco cinematografico ispirato a tale rivoluzionario movimento, e di questo ne siamo grati anche a Francois Truffaut che, il 21 ottobre 1984 per un tumore al cervello, ha lasciato doppio un vuoto incolmabile nella sua vera arte di fare cinema.
Articolo pubblicato il: 5 Marzo 2021 22:29