Alla prima del Teatro Diana è Gabriele Lavia, nei panni di Ciampa lo scrivano, a portare in scena nel nome di Pirandello e della sua commedia “Il berretto a sonagli”, la crisi della società.
È Gabriele Lavia, attore nei panni di Ciampa lo scrivano, a portare in scena nel nome di Pirandello e della sua commedia “Il berretto a sonagli”, tutta la crisi della società borghese moderna, con le sue istituzioni che codificano oramai soltanto convenzioni irreali.
Ed è sempre Lavia, nel ruolo di regista, a dimostrare come, nell’opera del Nobel siculo, ad entrare in crisi è anche il protagonista, uomo smarrito e privo di orientamento in un mondo che ha perduto sino all’assurdo il senso dei valori. Alla prima del Teatro Diana, in quel drammatico e indissolubile gioco delle parti rappresentato dal teatro pirandelliano, un ruolo non marginale spetta allo scrivano Ciampa de “Il berretto a sonagli”.
Un uomo tradito dalla propria donna deciso a salvaguardarsi dall’appellativo di “becco” che Gabriele Lavia ha portato ancora una volta agli onori della platea con un’interpretazione di lodevole stile e di vigorosa e drammatica arte del dire. Dall’eloquenza placida del primo atto, all’agghiacciante riscatto conclusivo del suo personaggio, l’interprete e regista ha composto una sorta di tragica e trascinante armonia in grado di sedurre gli spettatori.
Invocando il suo diritto alla vita, senza più quella maschera che l’egoismo umano gli ha sottratto dal volto, il Ciampa di Lavia, aggirandosi in un mondo di fantasmi e immobili fantocci, passa dall’umiliazione del vinto alla rivincita di chi nessuno aveva mai avuto pietà. Grazie ad una recitazione lieve, calibrata con il misurino, quasi esile nel tono ma al tempo stesso accuminata, pungente e chiarificatrice, l’attore, nei panni dello scrivano di casa Fiorica, riesce a mettere bene a punto uno dei personaggi più tormentati e irrefrenabili del suo repertorio.
E ciò dalla sua prima filosofica e quasi serafica entrata in scena, al finale capace persino di andare al di là della realtà empirica, dove la follia si confonde con la tragedia e la risata con il pianto. Esaltando le capacità intuitive di Pirandello commediografo, e attingendo sia dalla versione originale in siciliano del testo (quella del 1916 scritta per la compagnia di Angelo Musco ’A birritta cu’ i ciancianeddi”) sia da quella successiva in italiano del 1918, fino a creare una fusione linguistica, Lavia, fa dell’arte dell’inespresso il punto forte della sua messinscena.
Con Federica Di Martino ben calata nei panni di una Beatrice Fiorica, propensa agli sbalzi di umore e fuori di sé per il tradimento del marito; e gli altri attori tra cui Francesco Bonomo nel ruolo di Fifì La Bella, il fratello di Beatrice dedito ai debiti di gioco; Mario Pietramala alle prese con un delegato di polizia di nome Spanò, più tutore delle apparenze che della legge e Maribella Piana nelle vesti di Fana l’anziana serva di casa Fiorica, a materializzarsi sono tutti gli accordi della grande partitura pirandelliana.
Sulla bella scena di Alessandro Camera, sapientemente illuminata da Giuseppe Filipponi e con i costumi ideati dagli studenti dell’Accademia Costume&Moda, i due atti che resteranno al Teatro Diana fino a domenica 20 febbraio, con i suoi tipi imprigionati in una situazione di paradossale dilemma, vedono ancora una volta l’individuo costretto a difendere a qualsiasi costo la sua onorabilità dinanzi agli occhi di un’ottusa società.
Ed ecco allora che tornando alla tematica delle due novelle di Pirandello, “La verità” e “Certi obblighi” del 1912, da cui scaturì “Il Berretto a sonagli”, a imporsi su ogni cosa è la paura della cosiddetta sanzione sociale insieme a quegli esseri manichini, (di cui nella messinscena ne è pullulante persino il proscenio) pronti anche alla più crudele delle azioni e al ricorso alla follia, pur di nascondere la meschinità di una incontrovertibile realtà.