Impronta di caffè, il romanzo d’esordio di Maria Sordino, è un giallo e non è un giallo, o meglio, è un giallo al servizio di qualcos’altro. Laura Mazzeri ci guida nella lettura del romanzo che riprende fatti di cronaca e alcuni aspetti di vita personale.
A cura di Laura Mazzeri – Impronta di caffè è un giallo e non è un giallo. Me ne sono resa debolmente conto all’inizio della lettura e poi con sempre maggiore convinzione, cogliendo indizi qua e là, nel proseguire fino al capoverso finale, quello che condensa in sei inattaccabili righe (che ovviamente non rivelo) tutto lo sdegno della scrittrice. Una scrittrice che affida la propria interiore voce narrante a Franco D’arminio, l’Ispettore del Commissariato San Paolo di Napoli, un uomo che porta sulle spalle il peso del male, che sopporta a fatica la sua personale sofferenza in continuo contatto con i fatti violenti – e anche così atrocemente umani – di cui si occupa nello svolgimento della professione.
Non sono un critico letterario, quindi mi limiterò ad annotare gli aspetti del libro che mi hanno colpito, che mi hanno spinto a identificarmi, a riflettere, ad aprire una finestra nuova nelle stanze della mente … insomma quelle meravigliose operazioni cognitive ed emotive che solo una buona lettura consente. E la buona lettura dipende inevitabilmente dalla buona scrittura.
Innanzi tutto vorrei segnalare due temi che mi stanno particolarmente a cuore.
Per prima cosa desidero ricordare che Maria Sordino – cara amica – è al suo romanzo d’esordio pur non essendo nuova alle gioie e ai dolori dello scrivere.
Entrambe ci siamo avvicinate alla scrittura gradualmente, come necessità vitale, non come professione. Mosse da urgenza espressiva e desiderio di comunicazione, come atto di resistenza e di riappropriazione di sé dentro vite piene, convulse, difficili. Noi e la scrittura, di fronte a eventi della vita davvero sfidanti. Tenendo conto di questo, capiamo come la pubblicazione di un libro, frutto di una passione tardiva, sia un’esperienza umana senza pari, destinata a sedimentarsi in un sentimento profondo di amore e di forza interiore.
Tanto è potente la scrittura. È soprattutto, la scrittura così intesa, una rigenerazione dello spirito, dell’umore, della vitalità e della progettualità di vita. Per questo motivo accolgo il libro di Maria Sordino con un sentimento di pura gioia.
In secondo luogo desidero rimarcare un altro aspetto per me importante. Il libro di Maria mi ha toccato perché ho sentito il sapore dell’autenticità. Troppo spesso mi ritrovo a leggere romanzi in cui sento odore di artificio, libri forse frutto di corsi di scritture creative (proliferano in ogni luogo), dove è più importante trovare l’idea originale piuttosto che la motivazione profonda. A mio avviso la scrittura di Maria affonda le radici nelle profondità del suo animo, scandaglia temi e aspetti che le stanno a cuore, importantissimi per lei proprio come persona. Una scrittura che possiede radici.
Di questo libro mi hanno toccato alcuni aspetti peculiari.
I personaggi appaiono volutamente “semplificati” nel loro profilo psicologico e comportamentale, con un affascinante effetto narrativo: in ognuno il lettore, come nelle fiabe, può ritrovare parti di sé, sia quelle chiare, sia quelle scure. Ecco qualche esempio. L’ispettore integerrimo, arrabbiato, esausto, sull’orlo della disfatta personale e professionale. La violinista vittima dell’oscuro passato, che ritorna, e da cui non può riscattarsi. L’omosessuale vittima di una diffusa e persistente cultura omofoba. Il professore che ama nel modo sbagliato le donne, usando loro violenza. Il marito fedifrago e donnaiolo dal pentimento tanto facile e piagnucoloso quanto poco consistente. E poi c’è Napoli, stigmatizzata nei suoi aspetti fragili e dissonanti. Una città bellissima e ripetutamente ferita.
La figura dell’Ispettore D’arminio si staglia sul panorama umano e sociale, soffre, si barcamena, sembra cedere.
Sembra sempre a un passo dalla sconfitta, cosa che – se così fosse – lo renderebbe l’ennesima effige di una Napoli e di una umanità che non possono mai redimersi.
E invece, nel colpo di coda finale, la scrittrice affida a un D’Arminio-padre il tenerissimo compito della redenzione.
La figlia, adolescente ribelle e a rischio, riceve dal padre-ispettore la più alta di tutte le lezioni: è necessario riconoscere il male, è necessario avere il coraggio di guardarlo in faccia, se vogliamo salvarci. Perché, come scrive Maria Sordino, uomini e donne non si nasce, lo si diventa.