Un inizio d’anno impegnativo tra grande schermo e palcoscenico, dove ritrae – per la regia di Luciano Melchionna, famoso per “Dignità autonome di prostituzione” -, un dolente e malinconico nonno Saverio, personaggio che fu a suo tempo di Paolo Panelli.
La storia è abbastanza nota, e racconta l’arrivo alla casa paterna dei figli sparsi per l’Italia in occasione delle feste del Natale. Assenti stavolta i nipoti, adolescenti in fuga dal nido degli affetti come segno dei tempi che cambiano nel nostro paese -, e in particolare il bambino che narrava gli eventi, il punto di vista qui grava tutto sulle spalle forti di Lello Arena.
Capace di passare in un attimo dalla malinconia nostalgica e un po’ naif alla comicità classica, dall’ingenuità un po’ infantile della terza età agli scatti irascibili, si placa solo di fronte agli ordini della mitica Nonna Trieste nella scena della divisa da carabiniere (una straordinaria Giorgia Trasselli è la moglie di Saverio, dall’accento ciociaro abruzzese irresistibile), perché da sempre lui è “uso a obbedir tacendo”.
Seduti a tavola per il pranzo di Natale, agli ingrati figli tocca sentire le prediche e la proposta indecente dell’anziana matriarca: trasferirsi da uno di loro a sorte per trascorrere gli ultimi anni di vecchiaia in compagnia, con in palio metà della pensione e la casa d’infanzia intestata.
Tra litigi, osservazioni politiche sintonizzate sui nostri giorni (migranti e Berlusconi, Forza Italia e la nuova tv trash), coming out esilaranti, ripicche e rinfacciamenti, si consuma l’epilogo tragicomico: una fuga di gas che arriva fino in platea tra luci accecanti e il ballo funesto di capodanno, mentre i due vecchietti “riposano in pace” nella casetta rotante che ricorda vagamente un presepe natività senza vetro, bella intuizione scenografica.
“Veleni” di Nadia Baldi invece è un noir tragicomico dalle atmosfere grottesche e con una galleria di caratteristi, i migliori attori della scena teatrale napoletana: Tosca D’Aquino, Gea Martire, Franca Abategiovanni e il ritrovato Arena. La storia, ambientata in un Sud Italia impoverito e spopolato a causa della guerra e dell’emigrazione, segue il ritorno a casa di Antonio (interpretato da Giulio Forges Davanzati, già visto nel docufilm di Scola su Fellini, “Che strano chiamarsi Federico”) per il funerale del padre.
Il film si apre subito con citazioni felliniane, nella messa in scena della processione e nella musica scelta, quella Gazza Ladra di Rossini che in 8 e 1/2 accompagnava le visioni di Mastroianni alle terme. Nel paese natio, popolato solo da bambini e da donne fin troppo in fregola amorosa, la madre e la zia di Antonio, perfide come due Erinni vendicatrici e un po’ streghe di Macbeth, giocano con doppi sensi semi-incestuosi e i famigerati veleni del titolo, arrivando a uccidere persino il padre del ragazzo, come si evincerà nel corso del racconto.
Il grande teatro napoletano, che in Gea Martire vede una garanzia assoluta, la bravura internazionale di Vincenzo Amato (il padre di Antonio) e l’immenso Arena in un ruolo che sembra quasi essere uscito da Amarcord, sono senz’altro gli aspetti più interessanti nella pellicola della Baldi.
Nel corso della storia effettivamente le avances al bell’Antonio si fanno sempre più insistenti e pressanti, in un crescendo parossistico che trova conforto solo in una ritrovata parentesi coniugale per il ragazzo, che durerà poco, purtroppo.
Articolo pubblicato il: 15 Gennaio 2018 15:31