Si è svolto recentemente a Roma, presso il Ministero della Salute, il convegno dal titolo “Screening neonatale: dai progetti pilota all’adeguamento del panel”, a cura dell’O.M.A.R. (Osservatorio Malattie Rare). L’obiettivo dell’incontro è ampliare il panel relativo alle malattie sottoponibili a screening. Tra queste vi è l’Adrenoleucodistrofia.
L’Adrenoleucodistrofia legata al cromosoma X (X-ALD), trasmessa cioè dalle madri portatrici ai figli maschi (gli uomini affetti trasmettono solo lo stato di portatrice alle femminucce, che tuttavia svilupperanno neuropatie in età avanzata), è una grave malattia genetica degenerativa che colpisce principalmente il sistema nervoso.
L’Adrenoleucodistrofia è caratterizzata da un progressivo deterioramento neurologico dovuto alla distruzione graduale della mielina, la sostanza che riveste le cellule nervose: tale processo patologico, definito demielinizzazione, impedisce ai neuroni di comunicare con i muscoli e gli altri elementi del sistema nervoso. Ha un’incidenza stimata in 1 caso ogni 20.000 persone (sia maschi che femmine) e non conosce barriere razziali, etniche o geografiche.
A raccontarci la difficile convivenza con questa terribile malattia è Alba, mamma a 18 anni, oggi impegnata in una missione che, per altre famiglie, potrebbe portare ad un finale diverso.
Alba ha incontrato sul suo percorso questa terribile malattia sul finire degli anni ’70, quando suo fratello di 11 anni a scuola cominciò a manifestare disturbi comportamentali: perdeva spesso il controllo di sé, tanto che le insegnanti lo indirizzarono a un supporto psicologico.
Solo più tardi si delineò il sospetto di una leucodistrofia, ma non venne suggerito mai alla famiglia di fare ulteriori indagini, né vi fu una reale presa in carico del ragazzo e della famiglia e quella parola, leucodistrofia, rimase lettera morta.
Ma, il dramma, era dietro l’angolo. La malattia ebbe un rapido decorso. E, quando Alba perse il fratello, si accorse che, il suo piccolo Antonio, che di anni ne aveva 8, cominciava a manifestare gli stessi problemi comportamentali e motori dello zio.
Alba racconta che il bambino si confondeva, urtava contro i cancelli, dimenticava il percorso per andare a scuola.
Con il timore che potesse trattarsi della stessa malattia, fece visitare il piccolo da un neuropsichiatra, che gli diagnosticò un’epilessia, benché il bambino non avesse convulsioni.
Alba era spaventata e disorientata: forse era lei che si stava suggestionando, che stava proiettando la sua ansia sul figlio, come le veniva detto da più parti, anche dagli stessi medici. Ma la donna non si arrese. Durante una vacanza in Germania, fece visitare Antonio da un altro specialista. Gli raccontò i sintomi e fu lì che le venne detto che probabilmente si trattava di una cosa davvero seria. Dopo un anno di peregrinazioni, Alba arrivò finalmente al Vecchio Policlinico di Napoli. E lì il prof. Cotrufo diagnosticò al piccolo Antonio l’Adrenoleucodistrofia.
Intanto Antonio, i cui sintomi neurologici avanzavano inevitabilmente, entrò in coma.
Ma, al Vecchio Policlinico, Alba aveva incontrato colei che non l’avrebbe più abbandonata in tutto il suo percorso con Antonio: si trattava di Marina Melone, oggi, direttore del Centro Interuniversitario di Ricerca in Neuroscienze, professore dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Avanzate – Clinica Neurologica II e Malattie Rare.
“La professoressa Melone mi è sempre stata vicino e quando ero davvero disperata è venuta persino a casa per darmi indicazioni e supportarmi. Antonio ha vissuto con questa malattia per ben 23 anni e noi insieme a lui”.
Alba ha affrontato tutto da sola, non ha chiesto aiuto a nessuno: notte e giorno ha assistito Antonio, senza uscire di casa, cullandolo con dolcezza, anche quando non era più un bimbo, pur di portargli sollievo. È entrata in contatto con altri genitori con storia simile alla sua. Ha aiutato gli altri due suoi figli, Vincenzo, il secondogenito, portatore di una mutazione genetica capace di esprimere una forma meno grave di adrenomieloneuropatia e l’ultima sua figlia che, invece, fatta l’analisi genetica, ha scoperto di non essere portatrice della malattia e di poter diventare consapevolmente e serenamente mamma.
Oggi purtroppo Antonio non c’è più, ma Alba non ha mai smesso di parlargli, neanche quando tutti le dicevano che era inutile, che era sordo e cieco e non poteva sentirla e, ogni volta che cura una rosa in giardino, con il pensiero la porge al figlio, affinché, condividendola, possano sentirne finalmente il profumo, vederne la bellezza e toccarne i petali delicati.
Articolo pubblicato il: 18 Dicembre 2019 19:40