domenica, Maggio 25, 2025

Mein Kampf di Stefano Massini: al Bellini il teatro si fa specchio del buio

Nel silenzio teso di un palcoscenico spoglio, là dove il nulla appare come l’unica verità rimasta, si apre il sipario su “Mein Kampf” di Stefano Massini, ospitato al Teatro Bellini di Napoli. È un’apertura rarefatta, quasi timorosa, come il filo di luce che filtra da una crepa della storia e si posa sulle macerie della coscienza europea.

Non è solo uno spettacolo. È un atto politico, culturale e soprattutto morale, che si innalza come un monito tragico sulle rovine del Novecento. Massini, con la sua parola affilata e la sua presenza scenica magnetica, non interpreta un personaggio, ma incarna un interrogativo: chi era Adolf Hitler prima della catastrofe? Cosa si cela dietro il volto umano del mostro? In questo monologo – tratto dal famigerato Mein Kampf, testo aberrante e per decenni interdetto – non troviamo una giustificazione, né una condanna in forma canonica.

Troviamo invece l’eco di una domanda inascoltata: come può nascere l’abisso? Sul palco, Hitler è un giovane sfiancato dal rifiuto, umiliato dalla vita ordinaria che lo attende dietro un banco d’ufficio, ossessionato da un’idea: non essere “nessuno”. Massini non lo imita, non lo carica di tic o gesti; lo scarnifica. Ne penetra l’inquietudine, ne estrae la voce, quella voce che non urla ancora, ma implora di essere ascoltata.

È in questo ascolto che il pubblico viene chiamato a un patto scomodo: partecipare non come giudice, ma come testimone. E il testimone non può sottrarsi. Il flusso di coscienza – a tratti ipnotico, a tratti corrosivo – è un vortice che travolge. “Non voglio diventare un impiegato”, ripete ossessivamente il giovane Hitler, e quella frase, apparentemente innocua, si trasforma in un grido oscuro contro la mediocrità. È la scintilla del delirio: l’ambizione senza argini, la fame di significato che si tramuta in dominio.

La scena, essenziale e chirurgica, disegnata da Paolo Di Benedetto, trova nel disegno luci di Manuel Frenda un complice sottile, che cesella ombre come ferite. I costumi di Micol Joanka Medda sono quasi invisibili, mimetici come l’ideologia che striscia e si nasconde. Gli ambienti sonori firmati da Andrea Baggio scandiscono una partitura interiore: battiti, echi, crepitii di un mondo che implode.

Prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Piccolo Teatro di Milano- Teatro d’Europa, in collaborazione con la Fondazione Teatro della Toscana, questo Mein Kampf teatrale non è la messinscena del male, ma il suo disvelamento. Non ci offre la consolazione del distacco: Hitler, ci dice Massini, è ancora fra noi. Non nelle sembianze, ma nel linguaggio, nel bisogno pericoloso di verità semplici, nei meccanismi di esclusione e risentimento che attraversano anche il nostro tempo.

E se alla fine una cascata di vetro e libri si abbatte sul palcoscenico- simbolo potente di un sapere violato, di una civiltà spezzata – il suono che ne deriva è una frattura che resta dentro. È il rumore che faceva l’Europa quando crollava su sé stessa. In un’epoca di revisionismi striscianti e di oblii programmati, questo spettacolo è una trincea di parole. Non per difendere, ma per ricordare. Perché il teatro, come ci insegna Massini, è anche questo: l’ultima roccaforte della memoria.

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