L’avevamo lasciato l’anno scorso con Florence, piccolo grande film che fruttò la 20esima nomination a Meryl Streep (ha bissato quest’anno per la prima volta con Spielberg in The Post, quota 21 ormai). Il tocco di Stephen Frears, regista inglese, è inconfondibile: direzione magistrale degli attori, grande cura dei dettagli della scenografia e dei costumi, ironia sottile e mai troppo patinata. In Florence il gioco funzionava ancora a meraviglia, storia della famosa cantante senza voce che incantò lo stesso il pubblico americano, tra sorrisi, stroncature acide e maligne e grasse risate in sala.
Con Vittoria e Abdul siamo sempre di fronte a un gran film, eppure lo smalto non è più quello di una volta. Il ritmo è stanco al pari della sovrana più longeva della storia inglese (prima di Elisabetta II), la sceneggiatura è ridondante e troppo leziosa a tratti, ma attori, scene e abiti sono favolosi.
Judi Dench avrebbe meritato maggiore attenzione da parte dei membri del’Academy, non c’è dubbio, perché se Meryl entra sempre in cinquina, qualunque cosa faccia, non c’è motivo di non candidare la Dench o la Mirren, entrambe britanniche, per ogni bel ruolo che interpretano (anche Helen Mirren è assente infatti, il film di Virzì non ha superato la linea dei Golden Globes, al contrario di Guadagnino).
Forse l’ha penalizzata il film nel suo complesso, o i numerosi bei personaggi in gara quest’anno. Se fosse stata tra le migliori cinque attrici dell’anno, avrebbe potuto fare il suo ingresso nella Storia e nel Guinness dei primati: la Dench ebbe la prima nomination proprio recitando la parte della Regina Vittoria, ma lo vinse per ironia della sorte con Shakespeare in Love dove era Elisabetta I, e in questa nuova prova monarchica è tenerissima.
Un cucciolo dal peso politico forse minimo, ma simbolicamente potentissimo per la monarchia e l’Impero Britannico, al punto da incuriosirsi nei confronti del paggetto pakistano venuto a Londra solo per la consegna di una moneta d’oro per il Giubileo di Regno.
La bellezza e la grazia innata di Abdul Karim (qui ritratto dal sexy Ali Fazal, attore indiano) la colpiscono immediatamente, al pari della cultura e della parlantina. Suddito di una colonia remota che la sovrana comincia a prendere sempre più in considerazione. Arrivando a farsi costruire una stanza di rappresentanza nello stile delle Indie di cui è Imperatrice, e accogliendo in casa la moglie e la suocera dell’uomo, sempre più influente a corte. Ma anche odiato e detestato, per via dell’influsso straniero e della sua fede islamica (la consorte porta il burqa, e i momenti di visita medica dei due sono molto ironici). La morte della regina comporterà la sua caduta e il ritorno definitivo in quel del Taj Mahal, col ricordo eterno impresso della donna che regnò su un terzo del globo.
Questa vicenda era quasi sconosciuta ai più, data la scomparsa di molti documenti con la salita al trono del figlio di Vittoria, che nel film appare sempre più ansioso e impaziente di “tirare i piedi” all’anziana madre per il trono. Il nuovo re distrusse carte, souvenir e ricordi, e cacciò definitivamente la coppia musulmana dalla corte, come era lecito aspettarsi col cambio di regime.
Una regina nota per il suo rigore che fece la fortuna di un’epoca, imponendo di fatto un’etichetta e un moralismo che portarono il suo nome per buona parte dell’Ottocento, sorprende per questo lato affettivo e umano in anticipo sui tempi. Non era stagione di attentati e terrorismo islamista, in Europa i nazionalismi e gli irredentismi facevano stragi di corone e principi – assolvendo al ruolo attuale degli attacchi – e il pericolo era visto nei musi gialli giapponesi, vittoriosi nella guerra russo-nipponica. Eppure la corte inglese fu ugualmente intollerante nei confronti di un maomettano asceso troppo in alto nelle grazie del Capo di Stato. La diversità paga, e il più delle volte in negativo.
Articolo pubblicato il: 27 Febbraio 2018 11:36