Un tempo a Hollywood si cambiava cognome, oggi invece per la prima volta le star nate a Sud dell’Equatore e dei Tropici conservano orgogliosamente nome e origini. Così come per la prima volta il Cile potrebbe vincere la statuetta più ambita da ogni paese straniero, cosa mai riuscita finora al paese andino, ed è pure il favorito della vigilia. Del valore e della qualità del film Una donna fantastica si era dibattuto a lungo, ma la visione conferma tutte le aspettative e regala un momento speciale allo spettatore al cinema.
Non è un film facile, e poteva diventare pesante se affidato alle mani sbagliate. Fortunatamente a dirigerlo c’è l’ottimo Sebastian Lelio e a produrlo Pablo Larrain che l’anno scorso riportò Natalie Portman tra le migliori interpreti con Jackie, uno dei film più belli dell’anno e tra i più significativi, finora mai girati, sull’omicidio di John Fitzgerald Kenendy e sui funerali cui prese parte la moglie Jaqueline (ora disponibile su Sky Cinema).
Anche la protagonista di Una donna fantastica avrebbe meritato una chance quest’anno, peccato che l’Academy non abbia ancora superato certi blocchi, se persino una performance transgender recitata da una donna, era Felicity Huffman nel 2006, fu boicottata alla fine delle votazioni.
Daniela Vega, attrice e cantante lirica cilena, è Marina Vidal, la donna fantastica del titolo, di nome e di fatto. La sua vita viene stravolta letteralmente dalla morte del compagno, improvvisa, imprevista e foriera di vessazioni forse impensabili da subire.
Se non fosse una trans, tutto questo calvario non troverebbe luogo. Ma Marina è fiera, decisa, combattiva, persino il vento la piega ma non riesce a spezzarla, il vento impetuoso di Santiago, città in cui è ambientata la storia. La scena, bellissima e simbolica, è metafora della sua condizione e quel vento è fratello gemello delle raffiche castigliane che sconvolgevano vesti e capelli delle donne al cimitero manchego in Volver. Il riferimento al cinema di Almodovar non è a caso, infatti fotografia, luci e momenti di passione pescano non poco nello stile di Pedro, soprattutto all’inizio e nella carrellata “ventosa” sopraccitata.
Marina è costretta a dover mostrare documenti, a pronunciare il suo nome maschile, viene imbavagliata con lo scotch e picchiata in un raid transfobico ad opera del figlio del suo compagno. Lo stesso che ne violerà domicilio e diritti, cacciandola di casa e spogliandola di ricordi e passato. L’ex moglie del compagno deceduto non sarà da meno, col suo atteggiamento fintamente gentile, affettato e perciò falso e ipocrita: sarà lei a vietarle di recarsi in chiesa, per porgere l’ultimo, estremo saluto, perché Marina sarebbe oggetto di vergogna davanti agli occhi di sua figlia. Come se la vista di una transgender potesse turbare lo sviluppo psicofisico e la serenità di una bambina.
La pazienza di Giobbe abita nell’animo di Marina, messo sempre più a dura prova, a forza di perquisizioni, visite in commissariato e speranze affidate al macguffin di turno: la chiave dimenticata dell’armadietto della sauna in cui si era recato il suo uomo poco prima di morire. Un hurt locker, per dirla all’americana, un vano, un cassetto del dolore in cui riporre sofferenze e tristezza.
Se è vero poi che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, non sorprende l’esaurimento finale e l’esplosione di rabbia sul tetto dell’auto, requisita dalla famiglia del suo adorato e amato “amico” di una vita. Un film necessario e urgente in tempi come questi. Una storia attualissima, che potrebbe svolgersi in una capitale europea, in una città italiana o in una metropoli americana: l’amore non ha colore al pari, purtroppo, dell’omofobia.
Articolo pubblicato il: 28 Febbraio 2018 11:44