“The Shape of Water”, uscito in sala a San Valentino, è la perfetta antitesi alla patinata saga delle “sfumature” dei vari colori, giunta quest’anno al capolinea: una storia d’amore piena di poesia e passione, di ammirazione e devozione per il cinema e i suoi classici, di mostri veri e presunti. Da vedere assolutamente, anche per il bel coté politico e geopolitico che Guillermo Del Toro ha messo nella sua opera premiata già a Venezia col Leone d’oro 2017.
Nel 2007 Guillermo Del Toro si affacciava alla Hollywood dorata con Il Labirinto del Fauno, un gioiellino messicano battuto purtroppo dal tedesco (e molto intenso) Le Vite degli Altri tra i film stranieri. Il film non tornò a casa a mani vuote e Guillermo, seppur rimandando l’appuntamento con la statuetta, iniziò una carriera di tutto rispetto, sfiorando collaborazioni nel fantasy con Spielberg e Peter Jackson. La sua rivincita potrebbe essere La forma dell’acqua, rendendolo il terzo regista messicano nell’arco di tre anni a portarsi a casa l’Oscar per la regia, e per il miglior film, se non la dovesse spuntare Tre Manifesti a Ebbing Missouri.
La dimostrazione che il Leone d’Oro 2017 al lido di Venezia non è stato un caso, e che l’eco della laguna e del suo festival si sente sempre più forte a Los Angeles, dopo il successo l’anno scorso di La La Land che alla Biennale aveva iniziato la sua marcia trionfale.
Interpretato da Sally Hawkins, Octavia Spencer e Richard Jenkins, e dal sodale Doug Jones nei “panni” della creatura anfibia (ormai suo attore feticcio, già fauno nel Labirinto), The shape of water è una fiaba gotica, di quelle che non riescono più a Tim Burton, caduto nella trappola del manierismo ridondante. Rielabora in due ore miti e leggende antiche, su tutte quello della bella e della bestia, e le storie di mostri in realtà vittime dei loro carnefici, più mostruosi e cattivi di loro. Da bravo messicano, Del Toro attinge al patrimonio sconfinato della sua terra e al culto dei morti, molto sentito in centro America e riproposto anche nell’animazione Coco a firma Disney Pixar, che sicuramente vincerà l’Oscar, se i giurati non avranno l’audacia necessaria a premiare Loving Vincent.
Fotografia, scenografia e montaggio esaltano il lavoro del regista, attraverso il contrasto tra colori caldi e freddi nelle inquadrature, nelle splendide scene allestite e nei movimenti di macchina e nei raccordi. Già Pan’s Labyrinth aveva dato prova di un certo gusto artigianale del fare cinema, come il Jackson della trilogia dell’anello, con scenografie funzionali allo stato d’animo e alle situazioni rappresentate.
Ma gli attori sono il pezzo forte, su tutti Sally Hawkins, qui con un cognome tutto italiano nella Baltimora della Guerra Fredda, tra esperimenti e ritrovamenti esotici nell’America proiettata verso lo Spazio (la Spencer proprio l’anno scorso aveva preso parte a Il diritto di Contare, Hidden Figures, film sulla corsa spaziale della Nasa). Muta per gran parte del film, con la stessa ritrosia e sensualità dirompente di Holly Hunter in Lezioni di Piano, la Hawkins potrebbe vincere l’Oscar come fece la Hunter a suo tempo, se non prevale la McDormand del sopraccitato Tre Manifesti. In un appartamento che sembra uscito da un film di Jean-Pierre Jeunet o dall’Hugo Cabret di Scorsese (complici le musiche francesi di Alexandre Desplat, compositore mutante e trasformista), Elisa vive la sua quotidianità fatta di risvegli, uova sode nel bollitore e masturbazioni quotidiane in vasca da bagno. L’unico amico è l’artista Giles, omosessuale infelice e solo “disegnato” da Jenkins, che l’aiuterà, insieme alla collega nera (la sempre brava Octavia Spencer, già oscarizzata per The Help), a salvare il mostro anfibio, di cui si è innamorata la ragazza, dalle grinfie dell’unico vero antagonista, per usare un terminologia cara a Vladimir Propp: il colonnello del’esercito interpretato da Michael Shannon, abituato a ruoli da villain in serie tv come Boardwalk Empire e cinecomics. Anche Michael Stuhlbarg ci mette del suo in qualità di spia russa, attivissimo quest’anno al cinema dopo Chiamami col tuo nome.
Come diceva Samuele Bersani nel Mostro, una delle sue prime canzoni, testo che fece piangere addirittura Lucio Dalla a detta dell’autore, “l’unica cosa evidente è che il mostro ha paura”. La creatura, catturata in Sudamerica e venerata dalle tribù del fiume come un dio, possiede la stessa fragilità di King Kong portato in catene a New York e di una Pocahontas costretta al viaggio nel Vecchio Mondo. La luminescenza di cui è dotato, che lo accomuna ai Nav’i di James Cameron – segno forse che il secondo capitolo di Avatar è più vicino – è taumaturgica e nel finale darà finalmente un senso allo sfregio che da piccola Elisa subì, perdendo le corde vocali.
Tra camminate alla Mastroianni in Otto e mezzo nel corridoio che sovrasta il cinematografo sopra il quale abitano Elisa e Giles, bagni sentimentali a rischio allagamento e citazioni dal cinema espressionista tedesco degli anni ’20, The shape of water ha anche un sottotesto culturale e politico non indifferente. Da un messicano era lecito aspettarselo, la politica di Trump sul paventato muro in Texas non aiuta in chiave distensiva, e non sorprende quindi il trattamento duro che il diverso, l’alieno subisce nel corso del film.
L’anfibio umanoide diventa il correlativo oggettivo dei conflitti globali con la sua chiave di lettura geopolitica: il gioco mortale sul suo corpo squamoso, che gli scienziati americani e russi intendono intraprendere, non ricorda forse come sui corpi di tanti innocenti siriani si stia riverberando la sfida mondiale Russia – Stati Uniti in Medio Oriente? Oppure come l’isolamento della Corea del Nord e il duello Trump – Kim Jong Un non rappresenti un pericolo per l’intera popolazione delle due Coree? Se l’Oscar è lo specchio dei tempi, il riflesso restituito è efficace ma atroce al tempo stesso.