Frances McDormand è una di quelle donne toste che mancano sempre più nel panorama cinematografico: un’attrice di ferro e interprete di razza che non si è mai sottratta alle sfide e non ha mai avuto paura dei ruoli offerti. Capace di far ridere e riflettere, in Tre Manifesti a Ebbing, Missouri riesce anche a far commuovere con il suo potente ritratto di donna in lotta contro tutti e il mondo intero per la sete di giustizia e amor di verità (la figlia, stuprata, uccisa e data alle fiamme, giustamente non le fa trovare pace in famiglia e in città).
Una storia di violenza negata, mistificata, sotterrata che la madre coraggio McDormand fa riemergere dalle ceneri con tre manifesti messi a nuovo fuori Ebbing, cittadina nel Missouri. Un’araba fenice risorta in una strada solitaria e poco trafficata, che causerà non pochi problemi e turbamenti nella comunità miope, gretta e chiusa in se stessa: specchio atroce dell’America trumpiana e della Bible Belt delle pianure nel Midwest, ostaggio dei suprematisti bianchi e dei razzisti (in periodo di elezioni come il nostro certi discorsi suoneranno purtroppo familiari).
Se il personaggio dello sceriffo, chiamato “a voce alta” su uno dei tre “billboards” dipinti di rosso con scritta nera, colpevole di non aver indagato a sufficienza, gioca di sottrazione (magistrale Harrelson), quello del poliziotto ubriaco e mammone tratteggiato da Rockwell è un ruolo che non si dimentica: iperbolico ed eccessivo, barocco nei gesti e nelle azioni “fuorilegge”, bigger than life e ovviamente borderline, ma disposto anche a farsi picchiare sulla strada della redenzione. Finale aperto di “speranza”, se può esistere ancora in questa Terra martoriata.
Un terzetto attoriale di tutto rispetto, diretto magnificamente dal regista inglese Martin McDonagh, già vincitore a Venezia 2017 della Targa Osella per la sceneggiatura e candidato anni fa all’Oscar per lo script di quel gioiellino riconosciuto da molti che fu In Bruges, dopo averlo già vinto nel 2006 per un cortometraggio. Incredibilmente non candidato per la regia, si può consolare del fatto che nemmeno Spielberg lo è per The Post, come il nostro Guadagnino che pure meritava con Call me by your name. Si rifaranno probabilmente entrambi, Luca e Martin, sul fronte delle sceneggiature originali e non originali, o magari per il miglior film. Il duello con La Forma dell’Acqua di Guillermo Del Toro, anche lui reduce dal lido, è agli sgoccioli!
Articolo pubblicato il: 26 Febbraio 2018 14:46