Una bella spiaggia, l’acqua trasparente e cristallina in cui ci siamo appena bagnati o la pizza che stiamo per mangiare, un amore finito male o un bel film da vedere: tanto chiacchiericcio, solo fatti e informazioni insignificanti. Succede così che il viaggio nel web è accompagnato da un rumore di fondo, che ci scalda e ci illude di essere in contatto col mondo nel mare dei post.
In un tempo di inaridimento emozionale, preferiamo regalare frammenti di vita, pensieri, sensazioni, emozioni alla rete, piuttosto che all’amico di sempre e misuriamo la partecipazione “degli altri” dal numero di “mi piace”.
La chiamiamo comunicazione interattiva, ignorando il sostanziale isolamento da cui è avvolta.
È indubbio che, negli ultimi anni, la tendenza degli utenti a utilizzare queste “piattaforme di comunicazione” e la diffusione sul mercato degli innumerevoli “dispositivi mobile”, hanno fatto si che i social network diventassero i dominatori indiscussi della comunicazione mediatica sul web.
Basta guardarsi attorno, in metro oppure durante l’attesa alla fermata dell’autobus: solo teste piegate sullo schermo degli smartphone, ognuno dentro un mondo lontanissimo, il proprio.
Già, perché, tra le maglie della rete, nell’immaterialità dell’etere, credendo di postare il nostro stato per gli altri, non ci accorgiamo che, in realtà, stiamo parlando a noi stessi.
E così, tra un selfie e un tramonto, mettiamo ordine tra i pensieri, capiamo meglio una situazione, facciamo riemergere dal profondo del cuore un ricordo. Altre volte, invece, scriviamo senza un motivo cosciente, senza una precisa ragione e ci ritroviamo poi ad aver messo nero su bianco pensieri importanti.
Anche un post, quindi, può svolgere una funzione liberatoria e, perché no, può diventare un atto curativo, un modo per alleggerirci di un fardello, che ci portiamo dentro.
Esempi ne abbiamo conosciuti: #Sfidaaccettata, che ha lanciato Deborah, malata di cancro (2ANews.it del 2 settembre) oppure il post col dialogo tra il medico e la sua paziente, malata terminale, che ha commosso il web (2ANews.it del 30 luglio). Giusto per citarne qualcuno.
Perché riusciamo a raccontare più facilmente la nostra storia di dolore, il nostro disagio o anche semplicemente le nostre preoccupazioni al web?
Dalla notte dei tempi, scrivere delle proprie emozioni consente di affondare i pensieri in un dialogo introspettivo, di riorganizzarli in un quadro spazio-temporale definito e, per questo, più controllabile.
Oggi, Internet, ha in più il grande merito, da un lato, di aver permesso che il potere salvifico della scrittura diventasse uno strumento alla portata di tutti, anche di coloro che, meno bravi con penna e carta, grazie all’immediatezza del web, riescono a comunicare al popolo dei “mi piace” il proprio stato.
Ma dall’altro ha il potere di proiettare l’esperienza di disagio, dolore, tristezza, rabbia, paura, verso una elaborazione del proprio vissuto emotivo che, attraverso il segno dei “mi piace”, raccoglie molto più rapidamente conforto, consolazione, partecipazione.
Ma accade anche qualcos’altro. Quando, in mezzo a storie futili, una voce grida più forte delle altre, provoca un effetto mediatico dirompente: migliaia di visualizzazioni interrompono bruscamente il silenzio sornione di utenti che, da spettatori, grazie al potente strumento della condivisione, si appropriano della storia, diventandone attori essi stessi.
Perché i post, quando sono capaci di emozionare, diventano virali. Di like in like bucano lo schermo degli smartphone e rimbalzano nell’etere, tessendo i fili di una rete invisibile, che avvolge tutti e aiuta a non pensare.
È un’illusione? Beh, credere che il problema, per chi lo vive, possa risolversi in questo modo è irragionevole, ma di certo, come con la scrittura narrativa, consente di vincere il disagio, la paura, la preoccupazione.
E quando, qualche volta, questa rete è capace di uscire dall’impalpabilità dei click e di creare contatti reali, nuove conoscenze, nuove possibilità, allora le connessioni diventano fisiche e le persone si conoscono, si incontrano, si raccontano.
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