giovedì, Dicembre 19, 2024

Street Food: il “lampredotto”, a Firenze la trippa si mangia così

- Advertisement -

Notizie più lette

Redazione
Redazionehttp://www.2anews.it
2Anews è un magazine online di informazione Alternativa e Autonoma, di promozione sociale attivo sull’intero territorio campano e nazionale. Ideato e curato da Antonella Amato, giornalista professionista. Il magazine è una testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Napoli n.67 del 20/12/2016.

Il lampredotto è un panino con la trippa. E’ un piatto fiorentino a base di uno dei quattro stomaci dei bovini, l’abomaso, detto localmente lampredotto perché il suo aspetto esteriore ha qualche somiglianza con la pelle e la squamatura della lampreda, vertebrato di acqua dolce, che era presente anche in Arno.

Il lampredotto è un tipico piatto povero della cucina fiorentina, tutt’oggi molto diffuso in città grazie alla presenza di numerosi chioschi. Il trippaio più famoso è li da oltre un secolo, dato oggettivo che lo ha fatto entrare di diritto nel novero degli Esercizi Storici Fiorentini e Tradizionali, come si legge sul sito dell’Ufficio Promozione Economica del Comune di Firenze.

E ‘ubicato nella caratteristica Piazza del Mercato Nuovo che, da fine ’800 inizi ’900 ha iniziato la propria attività di vendita di lampredotto e trippa a Firenze.

Sostituito nel 1994 con l’attuale chiosco per adeguarsi alle normative di legge, tramanda l’attività di generazione in generazione, che mantiene viva la tradizione, cucinando oggi come allora, i caratteristici piatti di lampredotto e trippa nel rispetto delle ricette originali (www.esercizistorici.it).

Il panino al lampredotto è fatto secondo la più fedele applicazione dei dettami della tradizione. Risultato, è il più buono in assoluto di tutta Firenze.

Tutto merito della materia prima e del brodo di cottura, in cui viene intinta la metà superiore del pane. Quindi si posa il lampredotto, uno dei quattro stomaci del bovino, bollito a lungo in un brodo di verdure, sgocciolato e tagliato a pezzetti sottili, servito nel pane privato della mollica e condito a piacere.

Più di un quarto d’ora di fila, ma per una simile meraviglia, non c’è prezzo né attesa che tenga.

LA STORIA

Camminare per strada ed essere attratti da un profumino invitante, proveniente dal chiosco di un venditore ambulante. Niente tavoli o sedie, con l’unica possibilità di acquistare il cibo e consumarlo in piedi o, magari, seduti su di un appoggio di fortuna nelle vicinanze.

Può succedere in molte città italiane e del mondo. È lo street food, il nuovo modo di mangiare veloce, che ha radici antiche.

Il cibo preparato e cucinato per strada risale agli albori della nostra civiltà, circa diecimila anni fa, quando i greci già descrivevano l’usanza egizia, poi adottata in tutta la Grecia, di friggere il pesce e di venderlo per strada.

Negli scavi di Ercolano e di Pompei, è possibile ammirare i resti ben conservati di tipici “thermopolia”, gli antenati del moderno “chiosco”. Erano una sorta di cucinotto che si affacciava direttamente sulla strada, adibito alla vendita di cibi cotti di ogni sorta, principalmente minestre di farro, fave o cicerchie.

All’epoca, le classi urbane meno abbienti vivevano in abitazioni, per la maggior parte sprovviste di cucina. La gente comune si nutriva dunque per strada, rifornendosi dal più vicino thermopolium, che proponeva vivande alla portata di tutte le tasche.

Nel medioevo, nelle grandi città, banchi, banchetti e carretti vendevano a poco prezzo cibo cotto e cucinato per le vie anguste dei bassifondi. E, come spesso accade, è proprio nella povertà che l’ingegno umano da il meglio di sé e produce le immortali basi di una intera cultura gastronomica.

A Parigi i “pâtés”, o meglio “pâstés”, involucri di pasta contenenti varie farciture, in genere carni stufate o verdure, erano venduti per pochi soldi ai garzoni e ai facchini, che potevano così mangiare mentre lavoravano, senza bisogno di posate.

È lo stesso, umile principio della “pie” della bassa cultura anglo-sassone: un involucro crostoso di farina, strutto e acqua contenente interiora stufate, consumato dai minatori e dagli operai inglesi ai tempi della rivoluzione industriale.

La crosta poi si buttava via, perché sporcata dalle mani impregnate di carbone o di grasso dei lavoratori. Sempre britannico il “Fish and chips”, venduto per strada e avvolto nel giornale, retaggio dei profughi ebrei sefarditi in fuga dalle persecuzioni, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Seicento. Sono solo pochi esempi di come il cibo da strada abbia accompagnato l’evoluzione della nostra civiltà nel corso dei secoli, senza lasciare grandi tracce, visto il suo stretto rapporto con la plebe.

Nato povero dall’esigenza primaria di nutrire la gente semplice a poco costo, è diventato oggi, nell’epoca della globalizzazione, l’ultimo baluardo della tradizione e dell’identità di un territorio, puntando sull’aspetto culturale di tradizione, a volte da riscoprire, di un territorio e scommettendo sulla qualità di una proposta sempre più raffinata.

Ultime Notizie