Il 9 ottobre uscirà, edito da Mondadori, il primo libro di Nadia Toffa, dal titolo “Fiorire d’Inverno”. Un libro con cui la giornalista de “Le Iene” ha voluto raccontare il calvario vissuto dopo la diagnosi di tumore maligno.
“In questo libro vi spiego come sono riuscita a trasformare il cancro in un dono” scrive la Toffa sui social, “ho deciso di aprire a voi il mio cuore. Anche se parla di un periodo molto particolare della mia vita, “Fiorire D’Inverno” è un libro pieno di gioia e amore. Voglio raccontare come sono riuscita a combattere il cancro” continua la Toffa.
Il post ha ricevuto un fiume di like su Instagram. I fan della Toffa hanno accolto con entusiasmo l’uscita del libro, elogiando la determinazione di una donna che ha combattuto con coraggio una grave malattia. Non sono però mancate le critiche da parte di chi ha visto nella pubblicazione un tentativo di spettacolarizzazione della malattia e di chi invece si è indignato per la parola “dono” riferita al cancro, ritenendola un’offesa per chi è malato.
Scrivere come cura, per alleggerirsi del fardello della malattia. Un’esperienza che accomuna tante persone che, come la Toffa, nella loro vita, hanno subito l’incontro col cancro e che, grazie alla scrittura, hanno avuto la possibilità di esorcizzare la paura e di riorganizzare le proprie emozioni attraverso un profondo dialogo interno.
Che la scrittura potesse essere uno strumento potente per consentire il riequilibrio psicofisico di un animo travagliato dalla tristezza, dalla paura, dal dolore a causa di una malattia grave è ampiamente dimostrato.
James W. Pennebaker, uno dei più recenti studiosi di narrazione, ha condotto numerosi studi in merito, dimostrando che la narrazione consente di elaborare consapevolmente il vissuto emotivo associato ad uno o più eventi di vita stressanti.
Gli studi di Pennebaker suggeriscono che scrivere in modo narrativo consente di riorganizzare in modo organico gli eventi che colpiscono la vita di una persona, elaborando e incanalando le emozioni in una struttura di significato diverso, dotandole di un senso nuovo.
A conferma di ciò, negli scritti di traumi o malattie si osserva spesso il riscontro di un numero altissimo di parole positive, a discapito di quelle negative. Alcuni studi, nello specifico, attestano che la scrittura ha effetti positivi sull’ansia, sul tono dell’umore, nell’elaborazione di eventi disturbanti, nel ridurre le somatizzazioni e lo stress. La conferma arriva da alcuni ambiti patologici, come l’asma cronica o l’artrite reumatoide, dove è stato possibile osservare, rispetto alle condizioni mediche, notevoli miglioramenti clinici nei pazienti che avevano l’abitudine di mettere per iscritto le loro sensazioni o di tenere un diario.
Il dito, quindi, non andrebbe puntato contro la Toffa e il legittimo bisogno di raccontare il suo personale rapporto con la malattia. Se lei vive il cancro come un “dono” va apprezzato lo sforzo di vedere la malattia come una opportunità di cambiamento e di crescita e non come una condanna.
Di storie di cancro, alcune anche molto belle e ben scritte, pullula il web. Esistono numerose associazioni di malati che, attraverso premi letterari, incoraggiano la narrazione di sé e dell’esperienza con la malattia. Perché la scrittura ha il potere di agire come una medicina.
Ma case editrici come Mondadori (e non è l’unica) hanno invece colto in questo genere di scrittura un’opportunità di business.
Perché? Per nutrire la morbosità verso le sofferenze altrui che la gente ha assimilato dalle trasmissioni trash e che cerca nelle confessioni televisive di personaggi famosi e non. È nata così l’editoria del dolore che ha trovato terreno fertile negli ultimi anni e che, invece, dovrebbe essere più coerentemente letteratura della dignità (cit.). Una dignità con cui il lettore si deve misurare consapevolmente, non trovandosi dinanzi a storie di fantasia, ma alla vita di persone vere che combattono a testa alta l’unica guerra possibile per sopravvivere.
Articolo pubblicato il: 28 Settembre 2018 7:00